Nuovi modelli sono all’orizzonte limitando l’autonomia degli agricoltori e soffocando le realtà che non aderiscono allo “schema” – di Riccardo Bocci – Rete Semi Rurali
Si avvicina l’autunno: periodo di scelte per i cereali da seminare per gli agricoltori. Il ventaglio di possibilità è piuttosto ampio. Varietà come Verna, Senatore Cappelli, Saragolla, Frassineto, Autonomia e Gentil Rosso, per citarne solo alcune, sono di nuovo coltivate e trasformate in pane e pasta. Sempre più agricoltori, negli ultimi anni, si stanno riorganizzando a partire da queste varietà per riprodurre il seme in azienda e costruire delle piccole filiere, spesso locali.
Rete Semi Rurali, insieme al suo mondo sociale, ha supportato questi processi di crescita collettiva e scambio di saperi e conoscenze, organizzando incontri volti alla costruzione di nuove filiere, chiamati Filigrane. Si tratta di momenti di confronto tra tutti gli attori coinvolti con l’obiettivo di riuscire a gestire rischi e ricavi in maniera più consapevole e equa, uscendo dall’ottica del profitto come unico orizzonte dell’attività economica. Ma la velocità con cui si sta affermando l’interesse commerciale per i cosiddetti grani antichi, aggettivo già criticato in questa rubrica, sta superando la capacità degli attori di costruire filiere realmente inclusive e socialmente ed economicamente sostenibili. Assistiamo, infatti, a due fenomeni che minano alla base il lavoro fatto finora, rischiando di ridurre gli spazi di autonomia e diversità conquistati. In primo luogo, la costruzione di filiere chiuse dove i soggetti più forti controllano produzione e gestione del seme, dato o venduto solo a quegli agricoltori che accettano di far parte del gruppo di filiera (consorzio, cooperativa o società) e di restituire il raccolto prodotto. In secondo luogo, la pretesa da parte di questi stessi soggetti di avere il monopolio sul nome della varietà e la relativa diffida a chi sta fuori dal gruppo di continuare a usarne il nome sui suoi prodotti. Una mera guerriglia commerciale giocata sulla proprietà intellettuale, senza però averne diritto. Arroganza e potere economico e politico suppliscono alla mancanza di diritti. Due esempi spiegano quanto sta succedendo. Il frumento duro Senatore Cappelli è stato oggetto di un affido in monopolio per la produzione del seme alla società SIS (Società Italiana Sementi) nel 2016. Da allora questa sementiera, insieme alla rete dei Consorzi Agrari con cui costruisce le filiere, ha limitato la vendita del seme solo a quegli agricoltori disposti a restituire il raccolto e ha diffuso la voce che chi non compra il loro seme certificato non può più usare il nome Cappelli nell’etichetta del prodotto. Storia simile sta succedendo in Toscana intorno al frumento tenero Verna, con l’aggravante questa volta di diffide a usare il nome dirette a tutte quelle piccole realtà che in questi anni hanno coltivato la varietà e messo in piedi filiere locali. Ovviamente, le due varietà sono di pubblico dominio e nessuno può limitarne l’uso del nome anche se ha il monopolio della vendita del seme. Ma in questi casi è la forza del potere economico che ha la meglio sui diritti. Dopo aver aperto spazi per la diversità in agricoltura, grazie all’uso di varietà da conservazione e popolazioni, stiamo assistendo a un processo di appropriazione privatistica da parte di grosse filiere organizzate, capaci di rispondere in maniera più strutturata alla necessità di tracciabilità e certificazione della grande distribuzione, soffocando, però, tutte quelle realtà che restano fuori da questo modello economico. Non basta più scegliere di mangiare la pasta di Cappelli. Come consumatori dobbiamo capire chi la produce e come, scegliendo così il sistema socio-economico che vogliamo promuovere con il nostro acquisto.
138 Sono le varietà da conservazione registrate in Italia. Solo poche si trovano liberamente in commercio come seme.
Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola